dal dovere di intrattenere
con l'esibizione del privato
un pubblico senza volto,
nomi e cognomi privi
di segni di riconoscimento,
di dettagli anatomici
che li rendano distinguibili –
dall'obbligo di mostrarmi,
denudato e trafitto,
alla lente del microscopio,
al banco degli imputati
in attesa di giudizio –
dalle conversazioni
confidenziali ed oziose,
dai referendum, dalle elezioni –
dalle lezioni di vita vissuta
o soltanto immaginata
di chi pretende di decretare
quale cosa giusta farmi fare –
dalle indicazioni di voto
e dai voti di cambiamento,
di sobrietà, di dimagrimento –
di fedeltà a idee asfissianti
che levano ossigeno alla mente,
che urlano per non annaspare,
che si dibattono in attesa
di qualcuno che le venga a salvare –
dovevamo proprio ridurci
a produttori non richiesti
di opinioni per conto terzi,
a loro volta fabbricanti
l'inutile paccottiglia
di chiacchiere che oltraggia i silenzi –
rivendico la dimenticanza,
il passare inosservato,
la banalità dell'esistenza
lontano dal centro dell'attenzione –
e non ho ambizione per una parte
da attore protagonista nel dramma
collettivo che si va mettendo in scena –
così poco mi appassiona che non sia
il suono prima della parola,
il corpo prima della voce,
il pensare prima dell'idea –
la quiete prima dell'esplosione.
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